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Alice In Chains – Jar of Flies

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Dopo l’esordio con “Facelift”, l’interessante EP quasi totalmente acustico “Sap” e l’incredibile successo nel 1992 con quel pugno in faccia che fu “Dirt”, gli Alice In Chains pubblicarono come loro quarta fatica un nuovo EP, “Jar Of Flies”.

Si parte con “Rotten Apple”, titolo che sembra subito voler mettere le cose in chiaro: i 30 minuti abbondanti di questo extended play saranno un doloroso e autopunitivo mea culpa, magari autoreferenziale ma sicuramente sincero.
Il pezzo è una macabra marcia funebre di quasi 7 minuti in cui Cantrell alla chitarra, Inez al basso e Kinney alle pelli, cesellano un tappeto sonoro plumbeo su cui la voce acida e più volte sovra incisa di Staley, che rende al solito l’atmosfera generale ancora più aspra e straniante, declama come sognante la maledizione che incombe sulla propria esistenza.

Segue “Nutshell”, uno dei pezzi più minimali e al contempo celebri degli Alice In Chains.
Due accordi, la voce di Layne che recita parole dolorose, strazianti, di resa. L’assolo finale distorto spezza una tensione altrimenti insopportabile.

“I Stay Away” e “No Excuses” continuano a mostrare l’ottima forma compositiva del quartetto di Seattle: se la prima è una bizzarra e acida cavalcata quasi progressive in cui il gruppo sperimenta un arrangiamento innovativo per il loro stile, comprendente anche fiati e archi, la seconda (primo singolo estratto) ha una struttura più semplice, sincopata dalla batteria di Kinney e accompagnata dal rinnovato duetto Staley – Cantrell al canto, sorta di Lennon – McCartney in salsa grunge, che emozionano confrontandosi tra le righe, mettendo in musica il loro altalenante rapporto di amicizia.

“Whale & Wasp” è invece un suggestivo intermezzo in cui Cantrell fonde le due anime degli Alice In Chains dando luce ad una colorata tela con pennellate acustiche e dolorosi e distorti lamenti elettrici.

La chiusura morale del disco (quella reale è il divertissement jazzato di “Swing On This”, forse unico momento prescindibile del disco), spetta a “Don’t Follow”, delicato e struggente requiem di un amore in cui l’anima acustica dell’ Alice in catene ricompare, sostituendo l’amplificazione delle chitarre hard rock con una flebile armonica che accompagna il pezzo sottolineandone la malinconia, che si conclude con la magistrale interpretazione alla voce di Staley il quale, tralasciando stavolta sovra incisioni vocali che ne denotano la particolarità del timbro, chiude con classe cristallina questo piccolo miracolo, questa preziosa gemma made in Seattle, anno di grazia 1994.

Categories: Musica Recensioni Rock

matteo